giovedì 3 dicembre 2015
Taxi Teheran
Qualcuno si ricorderà sicuramente di Locke di Steven Knight. Aveva come protagonista un bravissimo Tom Hardy e narrava del viaggio del protagonista che deve fare una scelta che gli cambierà la vita. La caratteristica principale di questo film era che per novanta minuti vediamo solo lui e sempre in macchina.
Jafar Panahi usa lo stesso meccanismo di Locke nel suo Taxi Teheran. Se Knight lo usava come forma per raccontare la sua storia, qui Panahi lo usa per necessità. Il regime dell'Iran gli aveva imposto di non girare nessun film, ma Panahi sentiva il bisogno di raccontare la sua Iran e quindi ha deciso di girare nell'illegalità. Ha fatto quello che si chiama guerrilla shooting e quindi ha messo nella sua macchina varie gopro. Vedremo sempre lo svolgersi della scena in macchina, ma vedremo anche azioni che si svolgono in strada, però sempre dal punto di vista della macchina.
Necessità che diventa splendidamente anche forma. Il film in sé assume così un'impostazione teatrale. La macchina diventa il palcoscenico. I passeggeri stessi sono gli attori e il regista è il taxista. Ogni cambio scena è dato dalla salita o dalla discesa del passeggero. In questa rappresentazione teatrale si racconta un'Iran piena di contraddizioni.
Non c'è solo teatro, ma anche cinema. E' quindi un film meta-cinematografico. In Iran non arrivano certi film e neanche telefilm (vengono citati Big Bang Theory e The Walking Dead) e perciò per vedere il cinema occidentale si ricorre alla pirateria. Il dialogo tra tra Panahi e sua nipote sul realismo nel cinema è solo un pretesto per raccontare un'Iran dove non c'è molta libertà.
Alla fine Taxi Teheran è un film coraggioso che, pur nella sua illegalità, racconta in modo magistrale una realtà.
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